Alle elezioni comunali di Ravenna del 3 e 4 ottobre ci saranno 11 candidati sindaci e 30 liste. Sono proprio necessarie? E qual è il confine tra liste civiche e liste civetta?

L’incredibile numero di candidati sindaci e liste presentate a Ravenna per le elezioni amministrative del 3-4 ottobre 2021 fanno emergere, inevitabile, una domanda: ce n’è davvero bisogno? Tradotto: un territorio come quello ravennate, ovvero un comune territorialmente molto grande ma in cui il numero di elettori resta quello di un piccolo capoluogo di provincia (alle ultime elezioni erano 123mila gli aventi diritto), ha istanze tali da giustificare un plotone di circa 850 candidati in consiglio comunale a sostegno di 11 candidati sindaci? La risposta breve è no. Senza girarci troppo attorno, basta notare che a Milano – 1,35 milioni di abitanti – ci sono meno liste (28) e un numero di candidati a sindaco appena superiore (13).

Ragioniamoci su. Si potrebbe sostenere che la voglia di partecipazione politica dei ravennati è tale da portare alla creazione di 15 liste civiche, altre tre di ispirazione comunista e alcune di partiti di fatto inesistenti sul territorio comunale e irrilevanti su quello nazionale? Difficile, soprattutto perché l’aumento del numero di simboli sulla scheda è inversamente proporzionale all’andamento dell’affluenza al voto. Prendendo in esame le tornate comunali dal 1993 (data in cui si introdusse l’attuale sistema di elezione diretta dei sindaci) si nota come la partecipazione al voto sia calata di quasi trenta punti percentuali nonostante l’aumento di offerta politica a cui con evidenza non corrisponde una crescita della domanda. Undici candidati sindaci sono un record mai nemmeno sfiorato per una città che ne ha proposti al massimo sei. Se si sommano le liste presentate nel 2011 e nel 2016 si arriva a 29, una in meno di quelle presentate alle elezioni di ottobre del 2021.

Il grafico mostra l’andamento di liste, candidati sindaci e affluenza di voto (ovviamente questa fino al 2016)

Perché, dunque? Il motivo è banale: rastrellare voti. Qualche anno fa i partiti parlavano con disprezzo di “liste civetta” ma ora che sono un escamotage comune a tutte le coalizioni questa parola è caduta in disuso. O, meglio, le liste civetta sono solo quelle dell’avversario di turno. Bisogna però sottolineare che a Ravenna su trenta liste presentate, quelle che hanno una ragionevole possibilità di portare un consigliere in Municipio (28 seggi) sono una decina. Di queste, solo due sono civiche: l’ormai storica Lista per Ravenna e La Pigna. Gli altri sono partiti.

Lo dicono i numeri: ad una lista che si presenti da sola e con un proprio candidato serve almeno il 5% dei voti per far entrare un consigliere (prima il candidato sindaco poi gli altri) in municipio. Nel 2016 un numero di poco inferiore ai quattromila voti. Discorso diverso per chi fa parte della coalizione vincitrice: in quel caso una lista, contando sui cosiddetti “resti” che premiano innanzitutto chi elegge il sindaco, può sperare di entrare con poco più del due per cento, che equivale comunque a 1.579 voti.

Facendo i conti significa che ogni candidato, ipotizzandone trenta in lista, deve portare nel primo caso almeno 130 voti, nel secondo come minimo 50. In entrambe le situazioni si tratta di numeri piuttosto alti. Solitamente in queste liste di supporto i partiti inseriscono uno o due “campioni di preferenze” per tirare su il totale (e che poi saranno i più votati, quindi i consiglieri eletti) e avere un seggio in più in consiglio comunale. Difficilissimo comunque entrare in consiglio comunale per le liste civiche che siano parte di una coalizione sconfitta alle urne.

Non c’è insomma nessuna vera istanza civica, né propensione alla partecipazione dal basso nella nascita di tutte queste realtà politiche che in caso di fallimento si dissolvono, nonostante le dichiarazioni di intenti, il giorno dopo il voto. Certo, a volte viene inventato un filo conduttore che le giustifichi almeno formalmente ma di fatto si tratta di una strategia per portare acqua al mulino del candidato sindaco che a sua volta, a parte i due o tre realmente papabili alla carica, è in sostanza un “candidato consigliere comunale” visto che le possibilità di essere il “bug” di sistema partitocratico come quello italiano sono ridottissime. Persino il Movimento 5 Stelle, nato in parte da queste istanze di rappresentanza, si è trasformato alla fine in un partito. Un’evoluzione del resto in qualche modo prevedibile. A livello locale le reali possibilità che ha una lista civica di eleggere il sindaco aumentano nel caso in cui questo si presenti in coalizione con altre forze politiche che lo appoggiano. Il caso più celebre, ancora oggi studiato e citato, è quello di Giorgio Guazzaloca a Bologna nel 1999 che riuscì a interrompere il dominio della sinistra sotto le Torri. Qualcosa di simile è successo a Forlì nel 2019. Si tratta però di operazioni politiche studiate a tavolino.

Da parte loro le liste civiche hanno preso ad inventare ed aggregare altre liste minori inventando i “poli civici”. Anche in questo caso lo scopo principale è avere qualche preferenza in più. C’è gente che viene inserita in lista giusto per completarla e che non vota nemmeno per se stessa ma, quando va male, una lista di supporto porta a casa duecento voti. Se le moltiplicate per un “polo” di quattro liste oltre alla principale significa come minimo dagli 800 ai mille di voti in più per il candidato sindaco che, così, aumenta le possibilità di entrare in consiglio comunale. Il tutto con buona pace di chi ci crede e di chi davvero pensa che il suo impegno nella lista improvvisata di turno possa in qualche modo portare alla luce una qualche istanza che non sia quella di chi aspira ad un seggio in municipio.

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